Innanzitutto, vorrei scusarmi per la mia prolungata assenza, dovuta ad una spiacevole mancanza d’ispirazione ed accentuata da impegni costanti. Attualmente, mi trovo in Danimarca per un master in Studi Interculturali all’Università di Aarhus. Studiare in Scandinavia è totalmente gratuito per i cittadini europei, un’opzione allettante per quelli che, come me, cercano un’esperienza accademica all’estero. Tuttavia, non è tutto oro quel che luccica, poiché sopravvivere al vero Nord comporta esasperanti spese giornaliere. Ma se vogliamo dirla tutta, forse non è l’economia il più grande ostacolo, ma l’inverno inclemente.
Il cui grigiore, inverosimilmente, è durato fino al 12 marzo, 48 ore prima del lockdown nazionale, introdotto per evitare una ulteriore propagazione del coronavirus. Piccola parentesi: le autorità danesi, a differenza di quelle spagnole, hanno deciso di serrare lo stato con zero morti e con meno di 500 casi registrati. Proseguiamo. Nel momento in cui ci siamo rinchiusi in casa, il sole è uscito ed è rimasto lassù, custodendo l’orizzonte per settimane. Assurdo, dato che il pack nuvole/pioggia non si è fatto mai mancare, precipitando le nostre scorte di vitamina D nell’abisso e mettendo a dura prova la nostra stabilità emozionale.
In ogni caso, posso ritenermi fortunato, visto che la Danimarca non è stata fortemente colpita dalla pandemia. Il senso civico della popolazione, sommato all’efficienza governativa, ha tenuto a bada il virus. Al giorno d’oggi, possiamo passeggiare senza problemi e fare vita più o meno normale. Confinati, ma liberi per sgranchirci le gambe. Tornare al lavoro è tutto un altro discorso, perché la ristorazione è ancora ferma. Prima dell’apocalisse, facevo il lavapiatti per una catena di ristoranti. Di conseguenza, riuscivo a prendere l’aiuto statale chiamato SU.
Nella culla dei vichinghi gli studenti vengono pagati per studiare, perché è considerato una sorta di mestiere. Se sei europeo, puoi essere pagato anche tu e accedere a uno stipendio supplementare di circa 720 euro se lavori tra 10 e 12 ore a settimana. Quindi, ricevi il tuo salario più la somma statale. Da quando è arrivato il virus, ovviamente, non riesco più a raggiungere le ore richieste e, per tanto, non percepisco manco una lira. Adesso mi devo accontentare di pasti a base di spaghetti in bianco con abbondante olio di semi.
L’università presenziale, purtroppo, è finita sia per me che per tutti i miei colleghi. Dal lockdown, le lezioni avvengono esclusivamente online, congiuntura che si allungherà, almeno, fino a settembre. Sono abbastanza contento del master, però mi aspettavo più insistenza sull’interculturalità da un punto di vista pratico. Comunque, sono riuscito ad imparare molto sulle lingue indigeni latinoamericane, il multiculturalismo e la diversità culturale, tra tanti altri argomenti. Ancora, però, mi manca un anno di studio, durante il quale dovrò fare uno stage e scrivere la tesi. Vorrei farlo nel Sud America, se l’amico corona e la sicurezza di tutti me lo permetterano. Altrimenti, rimarrò in Danimarca.
Tralasciando il clima demoralizzante e il costo della vita, questo piccolo paese nordico mi ha stupito per la sua produttività e cortesia. Almeno ad Aarhus, la seconda città della nazione, i servizi funzionano stupendamente e non esistono bastardi che suonano il clacson appena scatta il verde. La natura, d’altro canto, è facilmente raggiungibile, con numerosi laghi, parchi e boschi incontaminati. Per quanto riguarda i danesi, seppur gentili e carini, evitano troppo spesso il contatto e i rapporti profondi con gli stranieri, ma penso che abbia a che vedere con la loro riservatezza culturale, che, in realtà, non disturba affatto.
Sicuramente non è il paese più caloroso dove ho vissuto, ma vi posso assicurare che vince nettamente nel campo del benessere generale. In Danimarca tutti hanno abbastanza e nessuno è migliore degli altri.
Jeg håber du har det godt,
Bernat.