Come ben saprete, sono un gran fan della diversità culturale ed, in particolare, ci tengo molto a promuovere e difendere le lingue minoritarie. Io stesso, da catalano, faccio parte di questa singolare ma non insignificante comunità globale, la cui estinzione – a meno che non cada un meteorite stracolmo di empatia e solidarietà interculturale – sarà lo scenario più plausibile. Frasi come ‘il vasco non ti servirà in questa vita’ oppure ‘perché studiare guaraní potendo imparare lingue internazionali’ sono la spaventosa musica che si diffonde tutti i santi giorni attraverso le numerose piattaforme. Questa carenza di considerazione è estenuante ma quello che più mi manda in bestia è il dover giustificare in continuazione il perché della mia esistenza e della mia identità. È semplice vedere ed interpretare il mondo dall’alto delle culture egemoniche, con la consapevolezza e tranquillità che la tua lingua non scomparirà.
Finito il preambol
Il Messico è il paese con il maggior numero di persone indigene in tutta l’America Latina con quasi 17 milioni di abitanti. Si stima che ci sono 68 comunità originarie diverse che parlano altrettante lingue diverse. Oltre allo spagnolo, tutte le lingue menzionate sono considerate nazionali. In Chiapas, d’altro canto, esistono 12 lingue ufficiali, tra le quali il tseltal e il tzotzil, entrambe della famiglia maya, sono le più usate aventi rispettivamente 470.000 e 430.000 parlanti. L’UNICH, inoltre per garantire un’educazione alle classi sociali più marginali, lotta per la diffusione e rivitalizzazione delle lingue autoctone della zona, così come per valutare i saperi ancestrali. L’istituzione in un certo senso combatte anche contro l’università egemonica europea, la quale ignora le conoscenze e gli accademici che non seguono le regole dominanti prestabilite.
All’università, al di là della ricerca personale, sto partecipando anche alla creazione del primo portale interamente in lingue originarie dello stato. Prima di arrivare in Messico, ho avuto un paio di conversazioni con il coordinatore della laurea Lingua e Cultura, un accademico indigeno della comunità maya Chʼol. Durante le nostre chiacchierate, gli ho proposto di creare il sitoweb, poiché la presenza online di linguaggi autoctoni era praticamente nulla. L’idea è piaciuta e, mentre scrivo queste righe, la piattaforma si sta sviluppando con l’aiuto di docenti e studenti. Qualsiasi appoggio che io possa dare in questo senso mi riempie d’orgoglio, in quanto, per me, l’interculturalità non è un concetto accademico, ma una forma di rispetto. Per questo motivo voglio indagare a fondo con l’obiettivo di creare società in cui la diversità rappresenti una fonte di ricchezza personale e collettiva. Morirò tranquillo solo nel momento in cui il pensiero dominante difenderà l’importanza di tutte le lingue favorendone l’insegnamento e la diffusione e non fomentando filosofie monolinguiste pronte a sottolineare l’inutilità di culture minoritarie.
Vivere a San Cristóbal è bello, soprattutto nel centro, dove la maggior parte degli expat riempiono bar e si muovono senza mascherina. Devo dire che mi schifa parecchio vedere come gli stranieri ignorino qualsiasi tipo di misura sanitaria, mettendo in pericolo i locali, il cui stipendio, in tanti casi, non riesce a coprire le necessità più basiche. Da quando sono qua, ho conosciuto non pochi europei e americani che sono venuti da queste parti senza farsi nemmeno un tampone prima di prendere l’aereo. “Il Messico non l’ho chiede, quindi perché farlo?”, mi raccontavano. “Per non contagiare a nessuno, direi”, mi rispondevo a me stesso. Sebbene ami percorrere le stradine della città, a tratti, mi assale un enorme senso di tristezza nel vedere le condizioni nelle quali vivono gli indigeni. Soprattutto, mi si spezza il cuore quando mi imbatto nei bambini tzotzil e tseltal che lavorano dall’alba al tramonto nelle vie più affollate di San Cristóbal.
Nell’arco di questi tre mesi e mezzo non soltanto spero d’imparare tanto della storia messicana e dei popoli originari del Chiapas, ma di conoscere altri modi di vita differenti dai nostri. D’altronde, noi europei, siamo fortunati, perché la povertà più assoluta non è un problema diffuso all’interno dei nostri confini. L’acqua è pulita, la verdura non è contaminata e la violenza è un fenomeno raro. Diamo per scontate cose e servizi che in altre parti del mondo sono privilegi. Questo mondo, basato sulla produzione infinita, è profondamente ingiusto e spero in un futuro poter dare il mio piccolo contributo per cambiare, non il sistema, ma le menti delle persone poco empatiche ed aiutare dal basso. Viaggiare e lavorare in ambienti diversi alla fine ti porta a questo: a conoscere, rispettare e valorizzare.
Salut.